venerdì 12 gennaio 2007

Una modesta proposta


PROPOSTA DI MODIFICA DELL’ART. 12 DELLA COSTITUZIONE, CONCERNENTE IL RICONOSCIMENTO DELL’ITALIANO QUALE LINGUA UFFICIALE DELLA REPUBBLICA ITALIANA.

Considerazioni esposte nell’audizione del 18 ottobre 2006 alla Prima Commissione Permanente della Camera dei Deputati da:

Francesco Sabatini, professore ordinario di Storia della lingua italiana nell’Università di Roma Tre, Presidente dell’Accademia della Crusca

Nicoletta Maraschio, professore ordinario di Storia della lingua italiana nell’Università di Firenze, Vice Presidente dell’Accademia della Crusca

Vittorio Coletti, professore ordinario di Storia della lingua italiana nell’Università di Genova, Socio nazionale dell’Accademia della Crusca.

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Le affermazioni concernenti i valori linguistici da proclamare e tutelare in una Carta costituzionale, destinata a durare nel tempo, devono necessariamente essere basate su una adeguata conoscenza dei processi evolutivi plurisecolari propri dei fatti linguistici. I sottoscritti, tenuto conto dei vari argomenti sui quali sono stati consultati nel corso dell’audizione, si sentono in dovere di riassumere le proprie osservazioni nei due paragrafi seguenti, con il primo dei quali intendono contribuire a fare chiarezza su alcuni concetti e dati preliminari, ricavabili solo da uno sguardo al corso storico che ha portato alla formazione della comunità culturale e linguistica italiana, presupposto e fondamento della successiva nascita del nostro Stato politico.

1. Premesse generali di storia linguistica italiana.

La presenza di vari idiomi locali originari in seno a una popolazione che nel tempo è confluita in una stessa comunità culturale e politica è una condizione ordinaria di moltissimi Stati moderni. Nella generalità dei casi, la stragrande maggioranza di tali idiomi concorrenti deriva da una stessa lingua madre. Nella realtà italiana tale lingua è rappresentata dal latino, dal quale, come lingua effettivamente parlata dalla totalità degli antichi abitanti di questo territorio, deriva l’intera famiglia dei «dialetti italiani», i quali nel loro insieme hanno permesso di individuare, fin dal Medioevo, la popolazione riconosciuta come «italiana». Nella loro forma evoluta e nella residua consistenza odierna essi coprono quasi interamente il territorio dello Stato italiano (con propaggini in territorio svizzero).

In questo tessuto linguistico connettivo di base sono presenti “isole” o “penisole” alloglotte (albanesi, neogreche, serbocroate, slovene e tedesche, per un totale di circa 520.000 parlanti, 0,9 % della popolazione italiana), formatesi per espansione o immigrazione di nuclei delle popolazioni circostanti a partire dall’inizio del Medioevo. Una posizione affine occupano i nuclei che, collocati entro i confini del nostro Stato, parlano idiomi di derivazione latina (occitano, franco-provenzale, catalano, per un totale di circa 140.000 parlanti, pari allo 0,26 % della popolazione italiana) che però sono parlati anche in più vaste aree esterne, nelle quali si rintraccia anche il loro standard o la loro lingua di cultura di riferimento. Le popolazioni nettamente alloglotte e quelle che parlano varietà neolatine agganciate a uno standard esterno costituiscono le vere e proprie “minoranze” linguistiche storiche presenti nel nostro Paese. Altro tipo di considerazione si richiede per quegli idiomi che, compresi tra le varietà neolatine specifiche del territorio italiano, presentano tuttavia una fisionomia più caratterizzata, ma non hanno uno standard di riferimento che le unifichi (varietà del sardo; varietà del friulano e ladino).

È questo il quadro essenziale dell’Italia linguistica osservato nella prospettiva che parte dal basso, cioè dal livello delle parlate per così dire “spontanee”. Ma il quadro linguistico di una comunità che da secoli si riconosce unitaria culturalmente, e che su questa base ha conseguito anche l’unità politica, va osservato con altrettanta attenzione anche secondo una prospettiva che parte dall’alto, che cioè consideri specificamente la forza linguistica che è stata capace di produrre l’effetto aggregante.

Il processo di formazione di una comunità culturale e sociopolitica evoluta, specialmente di tipo moderno, è infatti chiaramente guidato dal decisivo affermarsi, in mezzo a una pluralità di tradizioni linguistiche concorrenti, di una lingua capace di assolvere tutte le funzioni proprie di una società complessa, cioè da una lingua dotata delle seguenti caratteristiche essenziali:

- disponibilità di una forma scritta stabilizzatasi attraverso una lunga pratica;
- formazione e accettazione di una norma esplicita (elaborata dalla tradizione grammaticale e lessicografica) sufficientemente univoca, tale da essere utilizzata anche per la didattica formalizzata della lingua stessa;
- possesso di strutture sintattiche e di un patrimonio lessicale rispondenti non solo a libere creazioni letterarie, ma altrettanto ai contenuti del pensiero critico (filosofico, giuridico) e delle scienze esatte;
- in conseguenza di tutto ciò, adeguatezza agli usi ufficiali per il governo della vita civile organizzata dell’intera comunità che adotta tale lingua, e ancora
- capacità di confronto e corrispondenza con altre lingue in ambito internazionale.

Sono questi requisiti che creano la differenza tra una “lingua” e un “dialetto”. Si tratta, com’è evidente, di fattori tipicamente “sociolinguistici”, cioè attinenti alle funzioni che la lingua svolge, ma che, a lungo andare, influiscono anche sulle sue caratteristiche strutturali (ricchezza di materiale disponibile, pluralità di registri, maggiore stabilità).

I processi sopradescritti si rinvengono pienamente nelle vicende di formazione della lingua italiana.

L’Italia, rimasta politicamente frazionata a partire dalla guerra greco-gotica (sec. VI d.C.), andò incontro a una forte frammentazione linguistica e vide emergere, nei secoli X-XIII, una pluralità di tradizioni scritte locali. Dopo i tentativi di costituire una lingua interregionale compiuti nella prima metà del secolo XIII dalla dinastia sveva, la presenza di una lingua dotata di funzioni unificanti è documentata inequivocabilmente già negli anni a cavallo fra Duecento e Trecento: essa si deve fondamentalmente all’opera di Dante (le sue dichiarazioni esplicite, nel De vulgari eloquentia, precedettero la composizione della Commedia), alla quale fecero seguito immediatamente, oltre all’attività degli altri due principali scrittori fiorentini, Petrarca e Boccaccio, sempre più frequenti imitazioni e riconoscimenti di scrittori settentrionali e meridionali. La lingua letteraria di base fiorentina che da allora cominciò a diffondersi fuori della città di origine fu presto denominata anche «italiana».

Il processo di affermazione e diffusione di questa lingua fu consolidato dall’avvento della stampa (sec. XV) ed esteso, nella seconda metà del Cinquecento, a tutto il territorio italiano (isole comprese) e a tutti gli usi, compresi quelli amministrativi e giuridici: l’italiano, ormai pienamente costituitosi e precisato da un’abbondante opera di riflessione di grammatici e lessicografi, fu proprio in quel secolo accolto come “lingua tetto”, ossia come lingua di cultura moderna e unificante, definitivamente e spontaneamente dalle comunità locali, soprattutto da quelle di lingua neolatina. Va debitamente sottolineato che sia gli apporti costitutivi iniziali, sia i decisivi interventi stabilizzatori, sia i contributi alla sua crescita sono sempre venuti da diverse aree culturali e linguistiche d’Italia, oltre che dalla Toscana: dalla Sicilia e da Bologna, prima dell’opera di Dante; dal Veneto in misura notevolissima attraverso l’opera dei grammatici (risolutivo l’intervento del veneziano Pietro Bembo nella prima metà del Cinquecento); dalla Lombardia, dal Piemonte e da Napoli per l’intensissima attività degli scrittori di ogni settore culturale vissuti nei secoli XVII-XIX (si pensi in particolare agli illuministi prima e poi soprattutto a Manzoni), e dunque prima dell’unificazione politica.

Dal momento della salda affermazione cinquecentesca dell’italiano di base fiorentina, gli idiomi locali, già in precedenza limitati nelle loro funzioni, furono sempre più circoscritti alla comunicazione parlata del proprio ambito territoriale oppure utilizzati, anche con risultati di grande valore artistico, per forme di espressionismo letterario (con le eccezioni degli usi amministrativi e d’altro genere del tedesco nell’attuale Alto Adige e del francese nella Valle d’Aosta e in alcuni territori del Piemonte). La situazione instauratasi nel secolo XVI è quella che permane, con ulteriore indebolimento delle funzioni degli idiomi locali, nell’epoca attuale.

A conclusione di questa rapida ricostruzione della storia linguistica d’Italia, va messo in piena luce un dato essenziale: diversamente da quanto è accaduto negli Stati che, costituitisi come tali per tempo, hanno potuto affiancare e promuovere con azioni politiche il processo di formazione di una lingua nazionale, nel caso italiano è stata proprio l’esistenza costante e indiscussa di una lingua unitaria di robusta cultura che ha preparato la successiva riunificazione politica e ha permesso anche di individuare lo spazio del nuovo Stato.

2. «L’italiano lingua ufficiale della Repubblica italiana».

Da quanto detto sin qui segue che l'inserimento in Costituzione, nell’articolo 12, della menzione dell'italiano come lingua ufficiale della Repubblica (consigliamo di usare, per maggior precisione, il sostantivo "italiano" per nominare "la lingua italiana") è un gesto opportuno e auspicabile, perché riconosce e sintetizza una realtà di fatto secolare, voluta e condivisa da tutte le aree culturali del nostro Paese e non può in nessun modo essere inteso come un’imposizione o un gesto di “separazione” da nuclei di popolazione portatori di altre tradizioni linguistiche. È quanto chiedeva già anni fa l'allora Presidente dell'Accademia della Crusca, Giovanni Nencioni, con una petizione firmata anche da altre personalità del nostro Paese.

L’inserimento di tale menzione, oltre che un riconoscimento di un fatto storico, nella realtà italiana trova anche altri motivi a suo favore, per l’effetto di concreto richiamo che esso esercita su:

- una larga parte della popolazione che nel nostro “giovane” stato è meno a conoscenza dei fatti storico-culturali da noi prospettati nella prima parte di questo documento;
- sui responsabili dell’istruzione scolastica e delle attività di formazione del personale destinato alla scuola;
- sui responsabili della comunicazione istituzionale e dell’uso dei grandi mezzi di comunicazione;
- sui responsabili di ogni azione di politica estera, specialmente nelle sedi europee, nelle quali è quotidiano il confronto con la pressione di altre lingue che tendono a togliere spazio all’italiano.

Allo scopo di rimuovere alcune esitazioni, ma anche di evitare improprie impostazioni di questa decisione, riteniamo utile aggiungere ancora le seguenti considerazioni.

Nel dibattito parlamentare che ha preceduto i lavori di questa Commissione ci si è spesso chiesti come mai i Costituenti non ritennero di inserire il riconoscimento della lingua ufficiale già nella Carta originaria. La risposta sta nella scarsa urgenza del problema in quel momento, nel carattere incontestato e pacifico dell'affermazione di quanto ora si richiede e anche, si può pensare, nell'opportunità di non marcare troppo un tratto che il nazionalismo linguistico del fascismo aveva esasperato, tant’è vero che si ritenne invece, e opportunamente, di tutelare in Costituzione le minoranze linguistiche (art. 6; per il concetto appropriato di “minoranza” rinviamo alle precisazioni da noi fornite nel paragrafo 1). Ciò che allora poté sembrare superfluo o inopportuno, oggi invece appare necessario perché le questioni linguistiche hanno acquistato una centralità prima impensabile e le lingue dei grandi paesi hanno bisogno di acquisire una più precisa riconoscibilità.

Per quanto riguarda la sensibilità per gli idiomi locali, una volta dimostrata la fondamentale diversità dei piani sui quali essi si collocano rispetto alla lingua aggregante e generatrice dei più forti valori della cultura moderna, non resta che dare l’appropriata attuazione alle forme di salvaguardia e promozione affermate nell’art. 6 che specificamente le riguarda e che ha già trovato uno sviluppo in una legge del 1999. Si tratta infatti di rimarcare la differenza di significato che devono avere da una parte l’affermazione da inserire nell’art. 12 (nella quale, ribadiamo, sostanzialmente si afferma, alla luce di una storia secolare, un dato di fatto), dall’altro una eventuale dichiarazione, da inserire nell’art. 6, di un’intenzione che potrebbe essere resa più esplicita mediante il concetto della “valorizzazione” dell’intero patrimonio linguistico esistente in Italia.

Qualcuno si è chiesto, (lo si legge negli atti parlamentari) se sia possibile dichiarare ufficiale una lingua che sarebbe ancora mobile e variata a seconda dei parlanti, dei luoghi, delle situazioni comunicative. Rispondiamo che questo accade a tutte le lingue delle società complesse, ma non costituisce alcun ostacolo a identificarle. Di questa particolare mobilità dell’italiano, risultato della sua singolare storia di formazione, sarà piuttosto il caso di ricordarsi quando si dovessero riaffacciare i propositi, inaccettabili, di sottoporre la nostra lingua a una sorta di normazione ufficiale.

Per concludere vorremmo sottolineare il fatto che l’affermazione decisa e nitida «L’italiano è la lingua ufficiale della Repubblica italiana», posta nell’articolo 12, di così alto valore definitorio della nostra Carta Costituzionale, rappresenterebbe il nostro pieno riconoscimento, a distanza di settecento anni, della visione che Dante aveva già offerto della nostra lingua, allora nascente, come lingua non imposta da poteri autoritari ma nata per consenso degli spiriti nobili della «nazione» culturale e accolta e coltivata dappertutto in essa come principio di unione interna, veicolo di cultura nel mondo, forma concreta di rispetto delle diversità.

Francesco Sabatini, Nicoletta Maraschio, Vittorio Coletti
Roma, Firenze, Genova, 23 ottobre 2006

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